Tratto da "Con gusto", di John Dickie, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 227-229

Gusto and disgusto
by John Dickie

Gusto e disgusto
di John Dickie

To the Italian palate, the British way of eating is a cornucopia of horrors. The gastronomic culture clash begins at breakfast, for the very notion of frying anything so early in the day is enough to make most Italian stomachs revolve. So the full English breakfast is simply an outrage; among its most nauseating features are fried bread, black pudding and industry-standard baked beans. The continuing use of tinned tomatoes, warmed through and slopped straight on the plate, defies belief.

Italians also find it distressing that British people snack on the move. In Italy, ice cream is the only thing that can be enjoyed absolutely legitimately while walking, but even then the cone should be wrapped in a napkin, with another napkin ready to dab at the mouth, and the maximum permitted speed is a gentle amble. Italy has many street food traditions, ranging from Rome’s simple and omnipresent pizza squares and supplì (a deep fried rice ball with a melting heart of mozzarella cheese), to the more demanding Florentine lampredotto (a bread roll filled with succulent strips of boiled gut topped with oily parsley and chilli dressings). But consuming even these ready-to-go delights is an experience to be savoured, an experience worth framing with rules. Hence the napkin etiquette: skin and food should not come into contact. Hence also the fact that Italians eat things like panini and tramezzini (rolls and little crustless sandwiches) either standing at a counter, or perched on a stool by a shelf. To do anything as purposeful as walking at the same time would be disrespectful to the understated artistry of the cook, and it would cross the line that distinguishes eating from mere feeding.

The British are innocent of such refinement. With no thought of placing a napkin between their grubby fingers and their foul grub, the Brits munch sandwiches in cars, wolf burgers on trains or buses, and slurp kebabs or chips as they stagger from one boozer to the next. In fact the British eat anything, anywhere, at any time. When they hold a party, they even squat cross-legged on lounge carpets and scoff muddled heaps of pies, sandwiches, crisps and sausages.

 

Mysteriously, the British want everything on the same plate. Pizza and salad. And garlic bread. And chips. On special occasions, Italians like to savour the way antipasto, primo, secondo, contorno and dolce make for an evolving pattern of distinct tastes and textures. In order to cram a whole meal into five minutes of guzzling, the British invented their Sunday lunch; and in order to nullify its different tastes, they invented gravy.

 

A decade ago, a British brewing conglomerate commissioned focus groups to discover why Italian tourists in London so rarely ate in its pubs. Young and old, the Italians who were interviewed held tenaciously to their rules of proper eating. What they therefore found alienating about pubs, for example, was that a basket of bread did not come with the food; without bread, a dish does not qualify as a meal. They also found it off-putting that there were no tablecloths—not even the paper place mats used in cheaper eateries back home. And then there was the menu: a flagrant affront to Italian good taste. Side-salads with fat slices of onion and no dressing. Gluey blankets of sauce. Meat with jam. Warm ham with a slice of pineapple. Fish with béchamel and cheese. London pubs might as well serve Tube rat stew and Trafalgar Square pigeon sashimi. The only proper Italian response to such crimes is disgust.

The Italian dread of British food expresses itself in many stereotypes, but it also reveals a truth about the most visceral of human emotions. For we are what disgusts us. As we shiver with revulsion, our bodies vibrate in tune with our sternest prejudices. A rule has been violated; a pollution has occurred. And we know because we feel it physically as much as we perceive it mentally. Perhaps more compellingly than any other sensation, disgust shows who we are. Because we don’t do things like that.

When it comes to food, Italians are as sedulous in their disgust as they are discerning about good eating. Taste and distaste, gusto and disgusto, are inseparable partners in the Italian civilization of the table. It has always surprised me that the upmarket cookery courses hosted in so many Tuscan villas these days do not begin with lessons in disgusto all’italiana.

 

Al palato italiano, il modo in cui mangiano gli inglesi sembra una cornucopia degli orrori. Lo scontro di culture gastronomiche inizia dalla colazione, perché il concetto stesso di friggere qualcosa in padella così di primo mattino basta a far rivoltare lo stomaco alla maggior parte degli italiani; il full English breakfast, poi, è un oltraggio vero e proprio, che raggiunge i vertici della nausea con il pane fritto, il sanguinaccio e i fagioli in scatola. L’ostinato uso di pomodori in barattolo, riscaldati e rovesciati direttamente sul piatto, sfida la ragione.

Un’altra cosa che addolora gli italiani è l’usanza inglese di farsi uno spuntino camminando. In Italia, il gelato è l’unico alimento che possa essere consumato in piena legittimità mentre si cammina, ma anche in questo caso è necessario che il cono sia avvolto in un fazzoletto, con un altro fazzoletto pronto a intervenire per pulirsi la bocca, e il massimo della velocità consentita è un deambulio moderato. L’Italia vanta numerose tradizioni di cibo di strada, dalla pizza al taglio e i supplì, che a Roma sono onnipresenti, al più impegnativo lampredotto fiorentino (un panino ripieno di succulente strisce di trippa lessata condita con una salsa oleosa a base di prezzemolo e peperoncino). Anche consumare queste prelibatezze bell’e pronte, però, è un’esperienza da assaporare, che merita di accompagnarsi a delle regole. Ed ecco quindi l’etichetta del tovagliolo, che prescrive che pelle e cibo non debbano entrare in contatto. Ed ecco anche perché gli italiani consumano i loro panini e tramezzini in piedi al bancone o appollaiati su uno sgabello: eseguire mentre si mangia un’attività finalizzata quale la deambulazione sarebbe irriguardoso nei confronti della sobria abilità artistica del cuoco, equivarrebbe a varcare il confine che distingue il mangiare dal puro e semplice nutrimento.

Gli inglesi vivono nella beata ignoranza di tutte queste raffinatezze: senza curarsi di interporre un tovagliolo tra le loro dita sudice e la loro ripugnante sbobba, sgranocchiano un panino in macchina, divorano un hamburger sul treno o sull’autobus e trangugiano un kebab o un cartoccio di patatine facendo lo slalom fra gli ubriachi stesi per terra. Gli inglesi mangiano qualsiasi cosa, in qualsiasi posto e a qualsiasi ora. Addirittura, quando danno una festa, si mettono seduti sul tappeto del salotto a gambe incrociate, ingozzandosi di torte, panini, patatine e salsicce, tutto alla rinfusa.

Per qualche oscura ragione che agli italiani sfugge, gli inglesi sembrano amare avere tutto sullo stesso piatto: la pizza più l’insalata. Più il pane all’aglio. Più le patatine fritte. Nelle occasioni speciali, agli italiani piace assaporare il percorso di sapori e consistenze differenti che trova il suo compimento nella sequenza antipasto-primo-secondo-contorno-dolce. Gli inglesi hanno inventato il pranzo domenicale per potersi ingurgitare un pasto intero in cinque minuti, e per essere sicuri di annullare qualsiasi differenza di sapore hanno inventato la gravy, l’onnipresente salsa di carne molto amata Oltremanica.

Una decina d’anni fa, un gruppo di produttori di birra commissionò una ricerca per scoprire perché i turisti italiani a Londra andavano così raramente a mangiare nei suoi pub. Giovani e vecchi indistintamente, gli italiani intervistati rimanevano saldamente fedeli alle loro regole del corretto mangiare. Quello che trovavano alienante nei pub, ad esempio, era che insieme al cibo non ti portassero anche un cestino di pane: senza pane, un piatto non può definirsi pasto. Un’altra cosa che li scoraggiava era l’assenza di tovaglie, neanche le tovagliette di carta che vengono usate nei locali più economici in Italia. E poi naturalmente c’era il menù, affronto spudorato al buon gusto tricolore: contorni d’insalata con grosse fette di cipolla e nessun condimento; collosi strati di salsa; carne con la marmellata; prosciutto caldo con una fetta di ananas; pesce con formaggio e besciamella. Per un italiano, è quasi come se i pub londinesi servissero stufato di ratto della metropolitana e sashimi di piccione di Trafalgar Square: la sola risposta adeguata di un abitante della penisola verso simili delitti è il disgusto.

Il terrore degli italiani verso il cibo inglese trova espressione in molti stereotipi, ma rivela anche una verità sulla più viscerale delle emozioni umane: noi siamo ciò che ci disgusta. Quando fremiamo di repulsione, il nostro corpo vibra in sintonia con i nostri pregiudizi più severi: una regola è stata violata, è avvenuta una contaminazione, e lo sappiamo perché lo percepiamo anche fisicamente, oltre che mentalmente, perché il disgusto ci mostra, forse più efficacemente di qualsiasi altra sensazione, chi siamo. Perché cose del genere, noi, non le facciamo.

Quando si tratta di cibo, gli italiani sono altrettanto solerti nel disgusto quanto sensibili alla buona tavola. Gusto e disgusto sono partner inseparabili nella civiltà gastronomica italiana, al punto che mi sorprende che i costosi corsi di cucina organizzati oggi in tantissime ville toscane non comincino con delle lezioni sul «disgusto all’italiana».